Il nostro racconto

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Tratto dal libro di Maurizio Silvestri e Paolo Merlini “Un altro viaggio nelle Marche”

Eugenio e Gabriele Benedetti della Cantina Cavalieri vengono a prenderci puntuali alle 10. Accoglienza familiare, ambiente caldo e luminoso, il caminetto acceso e un buon profumo nella sala che ci accoglie. Eugenio è felice di narrarsi. Le tagliatelle col sugo di carne, nella migliore tradizione marchigiana, innaffiate da una bottiglia di Gegè, saranno il suggello a questa domenica mattina in campagna.

GEGÈ, IN DIREZIONE OSTINATA E CONTRARIA

Ora come allora “abbiamo appuntamento sotto i portici del Municipio” con Eugenio Benedetti, Gegè per amici e familiari, classe 1940, anima verace del Verdicchio di Matelica. Eugenio, capelli bianchi e occhi furbi, ha il fisico roccioso e l’aria guardinga, poche parole mentre andiamo ai Cavalieri, il podere di famiglia situato fuori città in una zona boschiva.

Ci mostra le nuove vigne di Verdicchio impiantate dal figlio Gabriele; una vecchia vigna di quarant’anni si trova al Fornacione (il nome spiega tutto), mentre la storica cantina di famiglia si trova a due passi dalla stazione ferroviaria.

Il Cavalieri è il podere che nonna Basilia ricevette in dote dal padre, fattore e proprietario terriero, che provò fino all’ultimo ad avere un figlio maschio, ma alla quinta femmina si arrese e lasciò un podere a ciascuna. E che se la vedessero loro. È proprio Basilia la chiave di volta di questa storia.

Nonna Basilia incarna la forza della donna marchigiana ed è lei l’origine della sapienza enogastronomica della famiglia Benedetti. Aveva il palato non raffinato ma sopraffino delle genti di campagna.

Sostiene, a ragione, Renato Novelli, che la tesi secondo cui la cucina italiana sia stata concepita dal gusto della classe nobile assemblando le materie prime contadine e popolari sia solo un mito. La ristorazione italiana è partita dai piatti popolari. I contadini e i pescatori il gusto ce l’avevano ben a posto e i piatti e le associazioni di ingredienti le hanno inventate loro stessi. Al contrario di quanto successe in Francia, dove migliaia di chef resi disoccupati dalla Rivoluzione, aprirono i ristoranti e portarono nel mondo la cucina aristocratica con i suoi gusti e le sue elaborazioni.

foto-eugenio-benedetti«È stata nonna a portare nella nostra famiglia la cultura vinicola».

Attraverso le parole di Eugenio mi pare quasi di vederla Basilia, in cantina a governare travasi e assaggiare campioni. «Io a otto anni ero già a pulire le botti e a fare la prima conoscenza con il Verdicchio. Quando si faceva il grado dei vini, tutti si riunivano in cantina per assaggiare. Nonna mi chiamava vicino a sé e mi diceva: “Gegè, senti, non è vero che ha preso di zolfo, è che l’ha tenuto troppo sulla feccia!»

Prendiamo confidenza. Eugenio è un attore, diventa un fiume in piena, irrequieto ed esuberante, il vocione graffiante di Vittorio Gassman, la risata sonora e beffarda. Una forza della natura “Made in Matelica”.

«Qui da noi c’erano le lacciate, filari di viti distanti dieci metri l’uno dall’altro con in mezzo fichi, noci e ogni altro ben di Dio. Trebbiano in mezzo al Verdicchio. Di questi tempi mangiavamo pane, uva e noci. Io c’ho il palato perché quei sapori dell’infanzia non si dimenticano. Il vino invece si faceva in botti di legno con il “governo alla toscana”, perché aveva un’acidità molto alta. Molto diverso da quello di oggi, veniva un po’ frizzante e si vendeva in damigiana alle osterie entro l’anno. Ma lo dovevi fare buono».

Governo alla toscana

Consiste nel mettere insieme al mosto in fermentazione una parte di grappoli surmaturi, sgranati o con il raspo, al fine di prolungare la fermentazione, rendere il vino più morbido.

GLI ANNI DEL DOPOGUERRA

A Matelica c’era un solo imbottigliatore prima della Seconda Guerra, tale Trampini, guarda caso un nipote di nonna Basilia. La zona era già ritenuta qualificata per i vini. La strada sembra tracciata ma i decenni dopo la guerra sono gli anni dell’abbandono dell’agricoltura, come dicevo, a Matelica sono gli anni di Enrico Mattei e delle assunzioni all’Eni.

La famiglia Benedetti nel frattempo si è data al commercio di vini all’ingrosso. Era il periodo più oscuro del Verdicchio a Matelica, nel commercio quello che contava era solo il prezzo. Basso. Eugenio è uno spirito irrequieto, una “capoccia libera”.

«Vedevo cresce le vigne mie e quelle volevo lavorare».

Ma a casa c’era il padre padrone, nessuno spazio per voli pindarici.

Eugenio passa gli anni Settanta a girare in lungo e largo il centro Italiana con il suo maggiolino verde mare per vendere vini romagnoli. Con successo, ma con un’ombra nel cuore. Intanto a Matelica la cantina di Italo Mattei, fratello di Enrico, aveva chiuso, c’era la cooperativa e altri due-tre che imbottigliavano. In Italia era l’epoca dei vini bianchi del colore della carta velina, cristallini ed insipidi. Niente a che vedere con il Verdicchio di Matelica, vino di razza.

ALLA RICONQUISTA DELLA TIPICITÀ

Nei primi anni Ottanta il padre si ammala, Eugenio rientra a casa e inizia a fare il suo Verdicchio di Matelica da artigiano, antico e rivoluzionario allo stesso tempo. L’archetipo era il sapore del vino di nonna Basilia.

«Io facevo un Verdicchio di Matelica naturale. Da artigiano: vinificazione in bianco con un Vaslin, un travaso dopo 48 ore e riposo in bottone fino a primavera quando si imbottigliava e tappava con tappi a corona alla maniera della Champagne. Dopo qualche mese lo travasavo senza filtri e chiarifiche, tappo di sughero e via».

Era il Cavalieri oppure il Fornacione, dal nome delle sue vigne che alla maniera borgognona, nel pieno rispetto del territorio, lavorava e imbottigliava separatamente. In una bottiglia borgognotta, al posto dell’ormai svalutata anfora. Una leggera effervescenza, un respiro, lo contraddistingueva, come nel vino di Basilia. Potente e acido con un po’ di cristalli sul fondo. Oggi sarebbe un vino di gran moda, a quel tempo era una mosca bianca, temerario.

Podere Cavalieri podere-fornacione-panoramaVallata del Podere Cavalieri

«Un vino cui devi voler bene prima di comprarlo». Che solo un grande venditore poteva smerciarne oltre ventimila bottiglie ogni anno, tanto bravo che non ne é rimasta nemmeno una. Peccato non avere l’opportunità di assaggiarlo.

Ma qual è l’anima di questo vino? «L’anima del Verdicchio di Matelica coincide con il luogo in cui nasce, freddo e roccioso, quasi selvaggio». Inesorabile e potente, prende alla gola e non ha niente di mansueto, ma è un eccezionale compagno a tavola, capace di tener testa a una tagliatella all’uovo condita con un sugo genuino di carne di manzo, inevitabile in un pranzo della domenica marchigiana.

UNA TRADIZIONE CHE SI RINNOVA

Eugenio oggi preferisce fare il nonno, ha passato il testimone a Gabriele che fa il vino secondo la sua testa, «perché è lui che lo deve vendere», ma si volta volentieri per studiare la lezione del padre, quasi per assorbirne l’energia e il coraggio per scelte controcorrente. La prima annata della nuova generazione è la 2006. Non è un caso che il vino si chiami Gegè.

gabriele-benedetti-con-bottiglia-gegeGabriele Benedetti e una bottiglia di Gegè